Giovanni ha conservato soltanto due beatitudini, legate a due episodi che egli solo racconta nel suo Vangelo: quella riguardante la lavanda durante l’ultima cena, che dichiara beati i discepoli se si laveranno i piedi gli uni gli altri come Gesù ha fatto con loro (13, 17), e quella rivolta ai futuri discepoli, dopo che Tommaso ha riconosciuto il Signore: «beati quelli che non hanno visto e hanno creduto!» (20, 29).
Poter vedere Gesù: non è il sogno di tutti noi? È stato il sogno dei giusti dell’Antico testamento che avrebbero voluto vedere Dio. “Fammi vedere la tua gloria”, prega accoratamente Mosè (Es 33, 18). I salmi esprimono questo grande desiderio: “vedere il volto di Dio” (24, 6), “la sua dolcezza” (27, 4), “la sua potenza e la sua gloria” (63, 4), fino a gridare: “Mostraci il tuo volto e saremo salvi” (79, 20).
Quel Dio invisibile, che non si può vedere senza morire, si è reso finalmente visibile in Gesù. “Chi ha visto me, ha visto il Padre”, dirà a Filippo (Gv 14, 8). Il vecchio Simeone può morire in pace perché i suoi occhi hanno visto la sua salvezza (Lc 2, 30).
Il Vangelo di Matteo fa scoccare, al riguardo, una delle sue numerose beatitudini: «Beati i vostri occhi perché vedono e i vostri orecchi perché ascoltano. In verità io vi dico: molti profeti e molti giusti hanno desiderato vedere ciò che voi guardate, ma non lo videro, e ascoltare ciò che voi ascoltate, ma non lo ascoltarono» (13, 16). Finalmente il desiderio tenuto vivo per secoli si è realizzato. I discepoli sono beati, perché vedono e odono.
Luca nel suo Vangelo porta una piccola correzione. Innanzitutto si ferma al vedere, lasciando l’ascoltare, perché in fondo è questo il desiderio più forte, vedere. Ma soprattutto omette il possessivo, i vostri occhi, e riporta così le parole di Gesù: «Beati gli occhi che vedono ciò che voi vedete» (10, 23). Perché semplicemente “gli occhi che vedono” e non più “i vostri occhi che vedono”? Finezze degli evangelisti, che hanno un senso. Eliminando i “vostri”, Gesù, nel Vangelo di Luca, sembrerebbe rivolgerci non soltanto di discepoli che aveva davanti, ma anche alle generazioni future, in una continuità tra i diversi testimoni che si susseguono nei secoli e che possono “vedere” grazia alla testimonianza di chi li ha preceduti nella fede.
Torniamo ora alla beatitudine pronunciata da Gesù davanti a Tommaso: «beati quelli che non hanno visto e hanno creduto!». Tommaso non aveva creduto ai compagni che gli dicevano: “Abbiamo visto il Signore”. A loro volta i discepoli non avevano creduto a Maria di Magdala che aveva detto loro: “Ho visto il Signore”. Non è che tutte queste persone non credono al Signore risorto, semplicemente non credono alla testimonianza di chi lo ha visto.
La beatitudine di Gesù è rivolta a noi, alle generazioni che verranno dopo gli apostoli e dopo i loro successori. È un invito a fidarsi della testimonianza della Chiesa. È come se Gesù dicesse: Tommaso, coloro che verranno dopo di te sono più beati di te, perché, a differenza di te, accoglieranno la tua testimonianza e quella delle donne e degli apostoli.
In definitiva, per credere bisogna vedere oppure si può credere anche senza vedere e così essere “beati”? Quale delle due beatitudini è valida, quella del Vangelo di Luce che promette la beatitudine agli occhi che vedono, o quella del Vangelo di Giovanni che la promette a coloro che non vedono?
Andiamo a vedere cosa accadde la mattina di Pasqua. Giovanni corse alla tomba, assieme a Pietro e “vide e credette” (Gv 20, 8) Cosa vide? Ben poca. Non il Signore risorto, non grandi prodigi. Vide solo delle bende. In pratica niente. Eppure “Vide e credette”. Credette non tanto in base a quello che vide, ma al rapporto speciale che aveva con Gesù, che gli faceva vedere anche quello che non vedeva, gli fecero capire che quelle bende vuote erano un messaggio della risurrezione di Gesù. Più tardi lo incontrò di persona sul lago, ed era ancora con Pietro. Gesù era là sulla riva, eppure nessuno lo riconosceva. Soltanto lui lo riconobbe, e disse: “È il Signore”. Non basta dunque vedere Gesù, occorre “riconoscerlo”. È l’amore che fa vedere. La vera beatitudine la realizza il “discepolo amato” piuttosto che Tommaso.
Vedere è credere, così come credere è vedere.
Per credere a Giovanni, davanti alla tomba vuota, gli bastò vedere piccoli segni, così come, sul lago, per vedere gli bastò credere: vide e riconobbe il Signore perché già credeva in lui. Anche a noi bastano piccoli segni: la testimonianza del Vangelo trasmesso lungo i secoli, l’esperienza del Risorto in mezzo a noi, il rapporto personale che nasce con lui.
A me fa sempre impressione l’inizio della prima lettera di Giovanni, quando si legge: “Quello che noi abbiamo visto…”. Quella lettera è scritta molti anni dopo la morte di Gesù e quel plurale non è un plurale retorico, maiestatico, solenne, che sta semplicemente per io; è un plurale reale, è la comunità che trasmette quello che ha ricevuto dall’apostolo. Allora sono dei bugiardi, perché loro Gesù non l’hanno visto… No, Giovanni ha parlato loro in modo tale di Gesù, che glielo ha fatto proprio vedere; a loro pareva proprio di vederlo Gesù, quando Giovanni parlava…, al punto da dire “Noi abbiamo visto”. Ma come abbiamo visto se non eravate ancora nati. Sì, abbiamo visto… Beati voi che credete anche senza aver visto, beati voi che credete al punto tale da vedere. Le due beatitudini si fondono.
La fede è una visione, anche se ancora pienamente limpida, direbbe san Paolo. Ma arriveremo a vederlo in pienezza, faccia a faccia: “Vedremo il suo volto” (Ap 22, 4), “lo vedremo proprio così come egli è” (1 Gv 3, 2).
Mentre siamo ancora in cammino, si fidiamo della testimonianza di Tommaso e con lui professiamo la nostra fede: “Signore mio e Dio mio”.