Ancora una volta Gesù è a pranzo da un fariseo. Guarisce un ammalato, racconta una parabola su quelli che prendono il primo posto a tavola e poi con vergogna devono scalare per far avanzare persone più importanti, infine si rivolge a chi l’aveva invitato e gli fa un discorsetto che non sembrerebbe proprio educato: «Quando offri un pranzo o una cena, non invitare i tuoi amici, né i tuoi fratelli, né i tuoi parenti, né i ricchi vicini, perché anch’essi non ti invitino a loro volta e tu abbia il contraccambio. Al contrario, quando dai un banchetto, invita poveri, storpi, zoppi, ciechi» (Lc 14, 12-13). Critica infatti l’usanza di invitarsi reciprocamente tra benestanti, sicuri che facendo così ci si possono facilmente scambiare i favori. Se oppone ad una reciprocità chiusa su se stessa, fondata su calcoli e non sulla gratuita, sulla controparte e non sul disinteresse; per cui, “che merito ne avrete?”.
Gesù guarda chi è seduto a tavola e individua quattro tipi di persone: gli amici, i fratelli, i parenti, i vicini ricchi. A loro contrappone altri quattro tipi di persone: poveri, storpi, zoppi e ciechi. Non solo, ma per i primi tipi di persone Gesù usa la parola pranzo, per poveri, storpi, zoppi e ciechi va invece imbandito nientemeno che un banchetto. Quello che appare ancora più grave è che le ultime tre categorie di persone che bisognerebbe invitare al banchetto di per sé sono escluse dal tempio e dalla comunità di Dio. Proprio con essi Gesù entrava in comunione di tavola e proponeva la vicinanza di Dio.
Dobbiamo allora escludere dalla nostra tavola amici, fratelli, parenti e vicini? Gli studiosi della Bibbia dicono che la contrapposizione “non invitare i tuoi amici… ma invita i poveri…” è un modo di parlare orientale che dovrebbe tradursi: “non far venire sempre soltanto gli amici… ma invita piuttosto i poveri…”. Quando dunque sei con gli amici, non dimenticare gli altri, tieni il cuore e la porta aperti.
Poco più avanti Gesù racconterà un’altra parabola, quella del re che invita gli amici al banchetto di nozze, ma nessuno di loro si presenta; allora manda a chiamare proprio la seconda categoria di invitati, poveri, storpi, zoppi e ciechi e questi vengono. Dio imbandisce la sua tavola proprio per queste persone
Gesù invita ad un agire che rifletta quello di Dio che fa sorgere il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni, e fa piovere sopra i giusti e sopra gli ingiusti (cf. Mt 5, 45), a un amore disinteressato.
«Siamo circondati dalla gratuità, siamo inondati da essa – ricorda sempre il mio amico Luigino Bruni. La natura, il cielo, il sole, la pioggia, la neve, la primavera, i boschi, l’aria, l’arte, la bellezza delle città, dei palazzi e delle chiese che abitiamo senza averle costruite, l’irrompere dell’amore, la nostra stessa esistenza, un grembo materno, Dio». Perché allora in un mondo stracolmo di gratuità siamo così attaccati all’interesse, al tornaconto, al do ut des, e non sappiamo entrare nella logica del dono?
Le parole di Gesù sono un invito permanente ad aprirsi al mondo dei bisognosi, a solidarizzare con i più svantaggiati e con gli emarginati, nel gesto più umano e più fraterno, sedersi insieme a tavola, mosso da un amore che non calcola e che vuole togliere l’ineguaglianza e la discriminazione fra le persone. È l’invito a un gesto senza interessi, una attitudine permanente di condivisione e di amicizia. Non è gratis, anzi, è molto costoso.
Ed ecco scoccare la beatitudine finale: «sarai beato perché non hanno da ricambiarti. Riceverai infatti la tua ricompensa alla risurrezione dei giusti» (Lc 14, 14). Un gesto gratuito, ma non senza ricompensa. Non immediata, ancora una volta sarebbe interessata. A quando allora la ricompensa? Alla fine, alla resurrezione. Allora per adesso niente? Ma se Gesù ha anche detto che è più beato chi dona che chi riceve cf. Atti 20, 35)! Forse la prima ricompensa è proprio la gioia che ci viene quando facciamo contento chi non ha da ricambiare…