È forse la più sorprendente delle beatitudini. Come si può dire beato chi muore? Non è la vita il più prezioso dei beni? Quando uno è morto è morto. “Meglio un asino vivo che un dottore morto”, sentenzia la sapienza popolare, che afferma anche: “Finché c’è vita, c’è speranza”, come dire che quando non c’è più vita non c’è più speranza. A tutto c’è rimedio, ma alla morte?
Anche la Scrittura si ribella davanti alla morte. Il libro della Sapienza inizia ponendosi decisamene dalla parte della vita: “Dio non ha creato la morte e non gode per la rovina dei viventi” (1, 13). Nell’Esodo il Signore aveva posto al suo popolo la scelta tra la vita e la morte, indicando la prima come benedizione e la seconda come maledizione (cf. Dt 30, 19). “Quale vantaggio dalla mia morte, dalla mia discesa nella tomba? – grida il salmista al suo Dio – Ti potrà forse lodare la polvere e proclamare la sua fedeltà” (Sal 30, 10).
D’altra parte la saggezza biblica riconosce che “Per chi teme il Signore andrà bene alla fine, sarà benedetto nel giorno della sua morte” (Sir 1, 11).
C’è dunque morte e morte, una per i buoni e una per i cattivi? Vale la pena rileggere il libro della Sapienza, così luminoso e pieno di speranza:
“Le anime dei giusti sono nelle mani di Dio, nessun tormento le toccherà. Agli occhi degli stolti parve che morissero; la loro fine fu ritenuta una sciagura, la loro partenza da noi una rovina, ma essi sono nella pace. Anche se agli occhi degli uomini subiscono castighi, la loro speranza è piena di immortalità. Per una breve pena riceveranno grandi benefici, perché Dio li ha provati e li ha trovati degni di sé: li ha saggiati come oro nel crogiuolo e li ha graditi come un olocausto. Nel giorno del loro giudizio risplenderanno; come scintille nella stoppia, correranno qua e là. (…) vivranno presso di lui nell’amore, perché grazia e misericordia sono riservate ai suoi eletti” (3, 1-9).
Sembra proprio la proclamazione della beatitudine per i morti.
La beatitudine di coloro che muoiono la troviamo nel libro dell’Apocalisse, ma essa riguarda chi muore “nel Signore”: “E udii una voce dal cielo che diceva: «Scrivi: d’ora in poi, beati i morti che muoiono nel Signore»” (14, 13). C’è morte e morte. Non basta morire per essere beati, lo sono quanti muoiono “nel Signore”.
Cosa vuol dire “nel Signore”? Viene alla mente la Lettera ai Colossesi: “E tutto quello che fate in parole ed opere, tutto si compia nel nome del Signore Gesù” (3, 17). È come dire: vivere e operare “in lui, con lui, per lui”; lasciare che sia lui a vivere e operare in noi. È vivere della sua vita, concretamente lasciarsi penetrare dal suo insegnamento e agire con coerenza: “Chi ascolta la mia parola e crede a colui che mi ha mandato, ha vita eterna; e non viene in giudizio, ma è passato dalla morte alla vita” (Gv 5, 24); “Se uno osserverà la mia parola non vedrà mai la morte” (Gv 8, 51). La sua è Parola che dà la vita: essere imbevuti di vangelo e vivere secondo l’insegnamento di Gesù conduce nella vita vera, quella che non è legata al tempo che passa. Chi vive la volontà di Dio espressa da Gesù entra dunque nella realtà di Dio.
Morire “nel Signore” vuol dire essersi nutriti al suo corpo e sangue fino ad essere in lui, un altro Cristo: “Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me e io in lui” (Gv 6, 56).
Morire “nel Signore” vuol dire vivere di fede, credere in lui, aderire alla sua persona e fare proprio in suo insegnamento: “Chiunque vive e crede in me, non morrà in eterno” (Gv 11, 26).
In una parola è beato non chi muore, ma chi vive in sé la vita di Dio, la sua Parola, perché vivendo così nasce in lui una vita nuova, che non verrà mai meno.
Allora la morte non fa più paura e viene da dire, come Paolo: “Per me il vivere è Cristo e il morire un guadagno” (Fil 1, 21). “Certa è questa parola: se moriamo con lui, vivremo anche con lui” (2 Tim 2, 11). Non moriamo perché una volta battezzati siamo già “morti con Cristo” al peccato, al male, per vivere di una vita nuova. Ne era convinto anche sant’Ignazio di Antiochia quando scriveva: “Per me è meglio morire per Gesù Cristo, che essere re fino ai confini della terra. Io cerco colui che morì per noi; io voglio colui che per noi risuscitò. Il parto è imminente. […] Lasciate che io raggiunga la pura luce; giunto là, sarò veramente un uomo” (Lettera ai Romani, 6, 1-2).
La morte non fa più paura… perché al momento della morte dovremmo essere già morti! Per risuscitare con Cristo, bisogna morire con Cristo, “andare in esilio dal corpo e andare ad abitare con il Signore” (2 Cor 5, 8), “essere sciolti” da questo corpo (Fil 1, 23), partecipando così alla sua morte, per poter partecipare anche alla sua risurrezione (CF. Rm 6, 3-9; Fil 3, 10-11). Fino vincere la morte e gridare con Paolo: “Dov’è o morte la tua vittoria?” (1 Cor 15, 55).
Questa beatitudine è frutto di una scelta che possiamo e dobbiamo fare fin d’ora. Anzi, possiamo già essere nella vita nuova, e quindi risorti con Cristo e già in Paradiso con lui! Lo assicura, ancora una volta, l’apostolo Paolo: Dio “ci ha risuscitati con lui e con lui ci ha fatti sedere nei cieli, in Cristo Gesù” (Ef 2, 6).
La resurrezione non avviene dopo la morte: o si risorge quando si è in vita o non si risorge più. Così questa, come le altre beatitudini, non è solo una proiezione nel futuro: si può essere beati adesso se moriamo ogni giorno a tutto ciò che è contrario alla volontà di Dio e se viviamo secondo l’insegnamento di Gesù. Allora, al momento della morte, ci sentiremo dire: “Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla fondazione del mondo. Perché io ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete ospitato, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, carcerato e siete venuti a trovarmi” (Mt 24, 34-36).
Vedi che il Paradiso si vive di là, ma si costruisce di qua?