A 20 anni dalla morte di padre Giovanni Santolini

Santolini2Il 23 marzo 1997 moriva a Kinshasa, nell’allora Zaire, p. Giovanni Santolini, Oblato di Maria Immacolata.

Ai suoi funerali un’immensa processione  (amici, conoscenti, persone che avevano ricevuto da lui ascolto e attenzione, religiosi e religiose di diverse congregazioni, sacerdoti, poveri…) aveva testimoniato  che cosa p. Giovanni aveva incarnato col suo essere missionario.

Eroe per abitudine” è il titolo di un libretto in cui si racconta qualcosa della vita di questo missionario, ed è anche una sintesi di che cosa lui era stato per i fratelli  che Dio gli aveva affidato.

A venti anni da quel giorno, la grande famiglia Santolini (fratellli, sorelle, nipoti e pronipoti) si è radunata alla casa provincializia degli Omi a Vermicino nei giorni 25 e 26 marzo 2017 per far memoria di p. Giovanni, attraverso varie testimonianze : le sue origini famigliari, il suo percorso di formazione, il suo servizio in missione.

Una di queste testimonianze è stata data da una Comi.

 

Missione   come    testimonianza

Al mio arrivo a Kinshasa, nel 2003, ciò che mi ha colpito è stata la forte presenza di p. Giovanni  in quella realtà di missione.

Alla messa per il suo anniversario erano arrivati in tanti, anche da fuori Kinshasa: famiglie intere, giovani, appartenenti a diverse realtà.

Quello stesso anno, con p. Adrien Gesse abbiamo cominciato a chiederci che cosa significasse questo “movimento” intorno al ricordo di p. Giovanni e abbiamo cominciato a pensare ad una fondazione che portasse il suo nome. Si andava sulla sua tomba per affidargli questa idea chiedendogli di aiutarci a capire come portarla avanti. C’era qualcosa che ci interpellava e che non potevamo lasciar cadere.

La fondazione è nata come uno sviluppo di questa presenza particolare di p. Giovanni, che restava viva al di là anche del comprensibile, ed è stata caratterizzata, soprattutto nei primi anni, dalla ricerca della messa a fuoco dei valori che lui  aveva incarnato con la sua vita e che ci aveva lasciato come piste di cammino di santità.

Santolini4A Kinshasa, nel 2007, dopo la celebrazione del decimo anniversario della morte di p. Giovanni, a cui avevano partecipato alcuni membri della famiglia e p. Archiati,  avevo scritto alcune osservazioni che avevo allora condiviso con i membri della fondazione:  « credo si sia aperta una fase nuova nella comprensione della sua persona. Sia per chi lo aveva conosciuto, perché si scoprono dimensioni nuove o forse non sufficientemente approfondite del suo servizio e del suo essere dono, sia per chi lo incontra per la prima volta come testimone dell’amore, direi già in una proiezione di santità.

Noi tutti abbiamo ascoltato la conversazione di p.Paolo e come, ad un certo punto, lui abbia detto che c’era un segreto nella vita di Giovanni Santolini, che era alla base di tutto il suo essere e di cui lui non ha mai parlato a nessuno. Confesso che questa espressione mi ha colpito molto e, pur comprendendo che se è un segreto tale forse resta, mi sono interrogata per cogliere almeno  in parte qualche radice di questo segreto.

Pensando a Giovanni mi sono chiesta se non è possibile trovare una dimensione contemplativa nella sua vita: una vita di intimità con lo Sposo che gli permetteva di non essere fagocitato dal mondo.

Lui si occupava di tante cose, lo abbiamo visto, ma che cosa gli permetteva di restare una persona semplice e di resistere alla tentazione di credere che la gente cercasse lui, la sua parola, cosa lo rendeva solo uno strumento dell’amore, se non l’essere immerso in Dio?

Potremmo dire, alla maniera di don Tonino Bello, che lui era un “contemplattivo”. Era il solo con Dio e di Dio e per questo poteva essere di tutti.

È necessario avere un cuore puro per uno sguardo missionario, cioè per vedere, giudicare con gli occhi di Dio; per vedere in tutto l’impronta del suo amore; per vedere ognuno come figlio e fratello; per leggere la storia come storia di salvezza.

Quante volte il prezzo da pagare per questo era alto, altissimo, eppure lui non si arrendeva mai.»

La Redemptoris missio dice (n. 42) “L’uomo contemporaneo crede più ai testimoni che ai maestri, più all’esperienza che alla dottrina, più alla vita e ai fatti che alle teorie. La testimonianza della vita cristiana è la prima insostituibile forma della missione…in molti casi è l’unico modo possibile di essere missionari.

P. Giovanni ha incarnato questa verità, perché per lui la missione è stata essenzialmente testimonianza di una vita radicata in Cristo e perciò capace di generare la Vita nei fratelli. La sua passione ad andare sino ai confini del mondo (sappiamo come da sempre desiderava partire ad gentes ) nasceva dall’interno della sua esperienza di fede, più che da una necessità o da un appello esteriore. Pensiamo alla scoperta, fatta in secondo liceo (come lui stesso scrive nella lettera con cui chiede l’ammissione al noviziato), della chiamata alla santità: “ho capito che se non divento santo la mia vita non ha senso, perciò mi son messo sotto a diventare santo”.

In una lettera scritta alla mamma in occasione dei suoi primi dice :

Sarò consacrato per sempre a Dio! La mia vita ormai sarà inesorabilmente legata con quella di Gesù. Io e Lui, noi due saremo una cosa sola – io Gesù! Quale mistero, quale spaventoso, stupendo e meraviglioso mistero. La mia vita cambierà per sempre. Da quel momento ogni mio pensiero, ogni mia azione sarà per il mio amato, per Gesù”.

Tutta la sua vita missionaria ha tenuto fede a questa dinamica di relazione con Gesù, e certamente quando era in Zaire, per tante situazioni particolari, ha trovato la sua espressione più alta.

Possiamo chiederci come ciò si sia manifestato nella testimonianza quotidiana, fatta anche spesso di fatica e di dolore, sempre nascosti dal suo sorriso, per dare agli altri ottimismo e speranza?

Soprattutto con un grande spirito di libertà, perché alle radici c’era questo sentire che era lo Spirito che lo inviava: nessun missionario si manda da sé.

Per questo Giovanni era una persona libera  e ciò lo rendeva capace di farsi uno con chi incontrava, al punto che tutti hanno potuto  dire di lui, e continuano a dirlo,  “era uno di noi”.

Santolini1In Congo abbiamo sempre sottolineato alcuni aspetti come la più alta testimonianza da lui donata. E questi aspetti oggi più che mai  diventano dei valori da raccogliere, soprattutto da chi desidera rendere sempre vivo il suo ricordo, come un testimone da non lasciar cadere:

  • la sua umiltà: il non dare peso ai suoi titoli e alle sue competenze, che erano tantissime, il cercare il contatto personale che lo coinvolgeva a fondo nelle situazioni delle persone che incontrava, soprattutto i più poveri, conquistandone il cuore e riuscendo a trasmettere coraggio e speranza;
  • il senso del sacrificio: di lui possiamo dire che era un “uomo mangiato”, che affrontava qualunque sforzo per rendere gli altri felici, che non si tirava indietro davanti ai sacrifici e alle privazioni che si imponeva, perché la vita degli altri era sempre al primo posto;
  • il senso forte della passione per Cristo: una realtà onnipresente che era la radice e il cemento della sua vita missionaria. Una passione che si trasformava in amore concreto per un paese di cui tante dimensioni erano incomprensibili e forse inaccettabili, ma che ha servito sino alla fine.
  • Il senso del positivo: scriveva credo a p. Fabio il 5 aprile 1996 “Dio non toglie i problemi, ma mi domanda di amarLo nei problemi, e a poco a poco mi accorgo che è proprio questo che mi fa andare avanti, e che mi dà serenità e pace interiore. Sento che il mio ruolo qui è quello di dare pace e serenità, di prendere su di me le tensioni e, anche a costo di sembrare sciocco, di far sì che non si vedano i problemi ma che si veda il positivo e che si vada avanti. Bisogna togliere a tutti i costi lo spirito di disfattismo, del “non va niente bene”, del “fare tutto male e non siete capaci a far niente…”. Giovanni aveva questa capacità di consumare in sé il negativo per dare agli altri solo il positivo: un vuoto tutto pieno d’amore.
  • l’amore per l’unità, l’unità della famiglia oblata, di cui si sentiva parte viva. Sentiva che la sua missione in Zaire era quella di essere strumento di comunione all’interno dello scolasticato, tra gli Oblati della Provincia, tra questi e gli Oblati di tutto il mondo. Era questa, d’altra parte, la sua idea del missionario: «Il missionario è strumento di comunione tra chiese. Ci vuole qualcuno disposto a dare la vita per continuare la comunione» (7.6.1995). Se è rimasto in Zaire, nonostante le difficoltà, è proprio per essere questo strumento di comunione.

A questo punto dobbiamo ancora chiederci cosa ci lascia p. Giovanni ?

Una verità che certamente conosciamo ma che è opportuno ricordare:

La prima forma di missione è la testimonianza personale della vita, che lui ha reso concreta attraverso un percorso che lo ha visto:

  • restare unito al Signore
  • vivendo il Vangelo della pace, con una mitezza che non gli impediva di affrontare le sfide più pericolose,
  • amando tutti senza esclusioni.

Antonietta Mongiò, Comi

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