Ecco, noi chiamiamo beati quelli che hanno sopportato con pazienza. Avete udito parlare della pazienza di Giobbe e conoscete la sorte finale che gli riserbò il Signore, perché il Signore è ricco di misericordia e di compassione. (Gc 5, 11)
La pazienza di Giobbe! È diventata proverbiale. Gliene sono capitate di tutti i colori. Lo depredano degli armenti e gli uccidono i mandriani, strani fulmini fanno strage delle sue pecore e dei suoi pastori, passano a fil di spada cammelli e guardiani e infine gli muoiono figlie e figli. Come non bastasse una terribile malattia lo divora. E lui invece di ribellarsi come gli suggerisce la moglie, proferisce parole di saggezza: «Nudo uscii dal seno di mia madre, e nudo vi ritornerò. Il Signore ha dato, il Signore ha tolto, sia benedetto il nome del Signore!»; «Se da Dio accettiamo il bene, perché non dovremo accettare il male?».
Lo ricorda Giacomo ai fratelli delle “12 tribù sparsi nel mondo”, ossia agli Ebrei che si erano convertiti al cristianesimo e che conoscevano bene le antiche Scrittura di Israele, compresa la storia di Giobbe. Lo ripete più volte nella sua lettera: “Siate pazienti… non lamentatevi” (5, 7-9). Invita a guardare l’agricoltore che aspetta con pazienza che la messa cresca, così come invita a guardare i profeti che hanno pazientato nell’attesa del Signore.
Forse parlava anche per esperienza propria. Era fratello di Gesù e Gesù Risorto gli era apparso, come racconta Paolo nella prima lettera ai Corinti (17, 7). Era alla guida della Chiesa di Gerusalemme, uomo legato alle tradizioni degli antichi, che amava continuare, pur nella novità cristiana, la legge di Mosè. Fu lapidato e finito con una clava perché il Sinedrio gli aveva intimato di dire che Gesù non era il Messia e lui, invece, lo aveva proclamato Figlio di Dio e Giudice del mondo. Morì, come Gesù, chiedendo perdono per i suoi uccisori. Altro che pazienza!
La pazienza. Una virtù piccola piccola. Non è tra le quattro virtù cardinali e neppure tra le tre virtù teologali. Una virtù che sembra vada bene per persone modeste, meglio ancora se anziane (infatti nella Lettera a Tito 2, 2 si legge: “I vecchi… siano saldi… nella pazienza”). È una virtù che, nei lunghi elenchi che si leggono nelle lettere di Paolo e di Pietro, sembra messa lì quasi per caso, accanto alla mansuetudine, la sopportazione, l’umiltà, la bontà… (Ef 4, 2; Col 3, 13; 1 Tim 6, 11; 2 Tim 3, 10; 1 Pt 2, 1.6; 2 Pt 2, 10…). Rimane anche un po’ scomoda, perché nasce dalla “tribolazione” (Rm 5, 3). Pazienza viene da patire, è frutto del patire.
Sale di grado quando appare tra i frutti dello Spirito, accanto ad amore, gioia, pace, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé (Gal 5, 22). Ma soprattutto assurge a virtù eccelsa perché l’ha vissuta lo stesso Gesù, come leggiamo nella seconda Lettera ai Tessalonicesi: «Il Signore diriga i vostri cuori nell’amore di Dio e nella pazienza di Cristo» (2, 3). Gesù si è caricato della croce senza fare tante storie, per amore nostro.
Sì, è frutto dell’amore la pazienza, perché non risponde male, non si ribella, sa attendere, perdonare, ascoltare, comprendere… e va avanti con costanza, senza stancarsi. Altro che virtù dei deboli, è virtù dei forti. Beato che la vive ed impara a viverla avendo sempre lo sguardo su Dio, paziente e misericordioso, che attende con fiducia il ritorno del figlio.
Insuperabile la spiegazione che papa Francesco ne ha dato in una sua omelia a santa Marta il 12 febbraio 2018:
«La pazienza è una virtù della gente che è in cammino, non di quelli che sono chiusi, fermi. E quando si va in cammino capitano tante cose che non sempre sono buone: a me dice tanto sulla pazienza come virtù in cammino l’atteggiamento dei genitori quando viene un figlio ammalato o disabile, nasce così», ed essi dicono «“Ma grazie a Dio che è vivo!”: questi sono i pazienti». E «portano tutta la vita quel figlio con amore, fino alla fine: non è facile portare per anni e anni e anni un figlio disabile, un figlio ammalato; ma la gioia di avere quel figlio dà loro la forza di portare avanti. E questo è pazienza, non è rassegnazione: cioè, è la virtù che viene quando uno è in cammino.
«Nella sua etimologia la parola significa “portare su”, “portare sulle spalle”, un atteggiamento che stanca, è vero: ma il paziente porta su, non lascia il problema, non lascia il limite, non lascia la sofferenza, la porta su e lo fa anche con gioia, letizia, “perfetta letizia” dice l’apostolo Giacomo.
«Pazienza, dunque, significa “portare su” e non affidare a un altro che porti il problema, che porti la difficoltà: “La porto io, questa è la mia difficoltà, è il mio problema. Mi fa soffrire? Eh, certo! Ma lo porto”.
«Pazienza è anche la sapienza di saper dialogare con il limite: ci sono tanti limiti nella vita ma l’impaziente non li vuole, li ignora perché non sa dialogare con i limiti. (…) La pazienza è una beatitudine, è la virtù di quelli che camminano, non dei fermi o chiusi; è sopportare, portare sulle spalle le cose non piacevoli della vita, anche le prove; è capacità di dialogare con i limiti».
Ed ha concluso con un suggerimento: «Fermati un po’, pensa alla pazienza di Dio Padre, “entra in pazienza” come Gesù. Chiedi al Signore la pazienza, che è una bella virtù».